CENTURIE DI CENTONZI E DELICATE MANGANELLATE

CENTURIE DI CENTONZI E DELICATE MANGANELLATE

MARCO VALLORA

STORICO E CRITICO D'ARTE

Ogni tanto io mi domando come mai la mia vita sia piena, farcita di mimmocentoinizi. Ecco, anche la macchina mi tradisce: volevo scrivere 'mimmocentonzi' ed è venuto fuori, giuro, naturale come un singhiozzo, questo ancor più misterioso ircocervo, che suona appunto: “mimmocentoinizi”. E che fa perfin troppo ermanno olmi, lo so, nè chiodo non scaccia chiodo, ogni chiodo anzi è un inizio, ogni inizio un chiodo: confitto nel costato flagellato della tua giornata. Sarà che ho questo, nella trippa enfia dell'inconscio scribacchino: il pungolo sfatto, che si deve pur iniziare da qualche bandolo qualché, e non c'è dilemmatica pagina bianco-frenante di Stefani Mallarmé, che mi sorregga e permetta di evadere, c'è di nuovo, intanto, Centonze al cellulare (non so quanto Mimmo Centonze -lui proprio lui- che esitavo retoricamente a far entrare in scena, ma è già qui, figurarsi, e mi saltella tra le righe della battitura, come un'antropo-cavalletta rinvigorita dal viagra naturale della pittura, non so quanto bazzichi, Centonze appunto, le righe arabescate del mimo luttuoso dell'Hazard, che non abolirà mai i dadi, ma so che non c'è pagina bianca che lo trattenga o argini, penso che non abbia ancor tratto una tela candida dal portapenne loquace della sua mattinata materana, che il quadro Capannone numero 23.470 si è già materializzato da solo, vispo e vociante e terribile, slavina bruciata come verdura ustionata: è lì, il quadro, terso e lucido come un'ocarina etnica ceramicata, impastata di colori -se imbrattata par brutto, come termine troppo diretto- praticamente pronta e sfornata ed imburrata di luce, lesta da spedire al prossimo recensore, convocato nel frattempo, uno non basta né due né tre nell'enfasi della pesca, incondita, giù nella buca ghiotta delle mails, more slavina, come lui interpreta Rembrandt. Senza che l'artista abbia nemmen dovuto agitare le mani od un dito, salvo che le mani o le dita adunche della voce, della michaelstetteriana suasione telefonica: nulla! fuorchè commerci di contatti, cellulari, invii, messaggini e messaggini di messaggini di messaggi, a dire che aveva detto di non aver detto che aveva detto di, sì messaggini enfi come conigli scuioati (leggo che Elisabetta Sgarbi pensa a Soutin) gonfi di pietas di sé, come formaggi fermentati di verminosità lacunose, inscatolate come matrioske scolpite dentro i sassi lucani, oppure incitazioni ciclistiche nel tour della notte, tipo: “Vai Marco che mi fido di te”, ed intanto la pittura si fa da sola, levita levita come in un apporto medianico, praticamente acheropita, senza contatto veruno di articolazione od estremità umana, soltanto una scheggiata condensa di parole agitose e misto-frappé, senza lasciar tregua al pestello dell'ugola piagnuquestante, “daichesonogiovanenondevitradirmi”, cantilenata ogni volta, come uno scongiuro yeyé.

Sì, Mimmo smodugno, sto parlando della tua pittura, non entrarmi in tensione, ti prego, sto parlando proprio e già delle cartilagini febbricitanti ed incandenscenti della tua pennellata, wagnerianamente martellata, nel teatrino mediterraneo e vernacolare del tuo Walhalla, leccata pennellata cagnosa di fabbro ferraio di hautes pa^tes desuete, cadute dal cielo fibroso e yogourth-riverso della fine del decapitato mondo della pittura (io semmai ci vedrei piuttosto Varlin che Soutine, per quel fluire slavinoso e catastrofale, sciacquone archeologico-industriale ed in fondo lucreziano, d'atomi incombusti e rimbalzanti, alluvione spezzata di luminosità acide e garagistiche, intinte nel fiele conversevole ed accigliato d'un nordico meridione, atomi e melasse ustionati dal sole chiuso della rabbia, d'una rabbia lattescente di luci intisichite ed ammalorate, ed ammaccate ed almanaccate, come dal carroziere, di tutti i possibili amianti del nostro provincioso empireo parlamentare. Ma forse il vero rapporto, quasi di devozione citante e salmodiante, è con Lucien Freud, un Lucien Freud, che abbia aggiunto nel dna, come versando marsala, non le ghette sussiegose e deterrenti di nonno Sigmund viennese, ma al massimo le galosche spellate di Domenico Rea, con la sua 'uva puttanella', mannaggia a lui. Sì, sì, fa nel mentre il tu tu canzonettistico del telefono, e flaua: “scrivi sì, sì, scrivi pure cose pazze, d'accordo, fai, fai, ma favorevoli a me?”.

Come si può far male, salvo che strapazzare il pennello della lingua, ad un caro bacillo remigante della famiglia ante-lucana dei “mimmocentonzi? Ho capito perché le chiamano 'ore antelucane': sostenendo che avrei domandato soldi a voci assessoriali, per il mio orecchio d'una memoria allontanata mai neppure ascoltate, oppure lenzuolate di mails ripetute a tappeto d'immagini ripetute, che paiono riverberare e reiterarsi nel silenzio abbandonato delle lettere perse, e mancano però quelle giuste ed attese: “scusa, sono andato a rivedere, ma io avevo capito e tu hai ragione” oppure “ti ho mandato quella mia riproduzione di Rembrandt quando avevo dodici anni che tu avevi tanto apprezzato”, d'un fiato.

Non ricordo averla mai incontrata, signor GiobbeDavideGeremia, che mediti sulla tua secolare rovina cosmica (certo è impressionante, se davvero dodicenne: questo senso di crollo e di sontuosa ruina, aspirata e rotolante, più che rutilante, di pintura). Ma ricordo il primo incontro col qui presente mimmo-centonze, pur in perenne fotocopia telefonica, in attesa d'uno sgarbiguardacasoinritardo, in un ristorante d'una cittadina di Sicilia, che ora nemmeno ricordo, in attesa che il medesimo abbattesse con carabinieri il cancello della locale Pinacoteca, dormendo per protesta il direttore, a visitare insieme una stramba felice natività museale, ovvero l'incestuoso commercio tra un notturno, ispido Caravaggio ed un natalizio Rubens.

Ebbene ricordo questo giovane pirotecnico, venuto anche lui dalla notte d'un kilometrico viaggio, e la voglia di rovesciate sul tavolo, tra le vongole, il suo book di ragazze abbandonate su tappeti pomeridiani di noie iperfreudiane e ritrarri cristallizzantisi d'antenati vicinissimi. Io non lo so perché, per riprendere in alto il discorso della mia giornata terrena, ma so che anche la vita di Sgarbi è, come la mia umilissima, costellata di queste strane effemeridi-escrescenze, che si chiamano mimmo-centonzi e che magari lui ti passa e mutua, dall'alto scranno di Sindaco infasciato, quasi fossero febbri contagiose e scottanti, epperò nemmeno lui li trascura, gli oscuri eredi d'una preistorica fauna senza più storia, e questo forse me lo rende simpatico, soprattutto, Sgarbi. “Sgarbi alle ore 4 e 40 dell'alba mi ha dettato il suo pezzo, tu?”. Terrore: la pittura di M. C. è fatta anche di queste malnutrite albe involontarie e di preghiere non esaudite, che montano come mascarponi all'olio d'oliva.

Ma lui, almeno, Sgarbi, intendo, nella sua sacca-faretra ha pure stipati fior e spine di politici, riveriti e reverendi, d'attori sciantose ed istrioni, costanzi e ballerine, ed io mi trovo invece, non mi posso non dire felice di questo, ma alla notte, ad avere solo accanto una piantagione telefonica e mentale di vigorosi mille-mimmo-centontizero. Io ho provato al proposito a consultare la famosa enciclopedia borgesiana, che contiene anche se stessa, e ovviamente contempla abbastanza di pagine dedicate a questa strana specie di mimmomulteplicicentonzi, è vero localizzati soprattutto nel Rio della Plata, dal tempo del pleistocene plantageneto, ma per quanto cerchi nelle pieghe del sommo argentino, invero, un perché, non s'è riusciti ancora a reperirlo (siamo in molti a desiderarlo) e a risolvere infine quest'enigma artistico. Perché questa curiosa fauna pittorica e scrittoria non si limita ad inviare notizie e dispacci, con incredibili condensati Morse alternati, di grumi improvvisamente annodati e percussivi di richieste, che non lasciano un respiro, epperò poi incredibili tendine di soffocato silenzio, interminabili dattili o sponde d'un mutismo sopito, per subito rinfocolarsi, serpente infido.

Ogni volta pare imminente anzi superata e defunta la data ultima e fatidica, per la consegna pezzo a catalogo con tipografo boccheggiante, ed invece tutto improvvisamente si spegne, langue come un mortaretto bagnato, in un torpore infido, che tornerà a bussare, a non breve distanza. La nuttata ora è passata, lo spazio è finito, gli amici non se ne vanno: sì, chiaro, tutto quello che ho detto ha solo voluto capire il pittar nobile di Mimmo C., che dipinge come telefona, gli hai scritto nel cuore della notte un messaggio di conforto, alle sette e mezza del mattino la sua pennellata ti fa sapere che ha appena depositato il suo primo strato di densità ansiogena, ti avverte a trombetta che la sua pittura ha iniziato a ululare, e a chiedere udienza, rispettosamentevossignoria.